Wall Street ieri ha chiuso un’altra seduta in positivo (la quarta di fila), a dispetto dei dati relativi ai non-farm payroll (le buste paga del settore non agricolo). Anzi, a volerla dire proprio tutta, NY ha concluso una inaspettata settimana di guadagni, che hanno addirittura annullato la maggior parte delle perdite registrate lo scorso mese di maggio, punteggiato – come si ricorderà – dalle minacce tariffarie del presidente Donald Trump che hanno intensificato le guerre commerciali con la Cina e il Messico.
L'ultimo rally, si diceva, è arrivato – paradossalmente – quando gli investitori hanno accolto con favore un rapporto che mostrava che gli Stati Uniti hanno aggiunto meno posti di lavoro del previsto, 75 mila rispetto ai 185 mila attesi dagli esperti, un numero ben lontano dalla precedente cifra di 224 mila).
Risposta irrazionale, verrebbe da dire, che tuttavia sottende un’altra e ben più marcata aspettativa. Vale a dire, la speranza che l'immagine poco brillante delle assunzioni si porti dietro la probabilità che la Federal Reserve si disponga a tagliare i tassi di interesse nei prossimi mesi. Magari già a luglio.
Ed in effetti il valore delle azioni è cominciato ad aumentare all'inizio della settimana, quando il presidente della Federal Reserve Jay Powell ha affermato che la banca centrale "agirà in modo appropriato" se le dispute commerciali minacciano l'espansione economica degli Stati Uniti.
"È uno strano mercato in questo momento", ha dichiarato Gene Goldman, chief investment officer e direttore della ricerca di Cetera Financial Group. "I mercati stanno prendendo le cattive notizie per buone notizie come motivo per il rally ".
Ad ogni modo, l'indice S&P 500 è salito di 29,85 punti (1,1%) a 2.873,34, segnando il suo primo guadagno settimanale in cinque settimane e il suo miglior guadagno settimanale dalla settimana del 26 novembre. Così pure il Dow Jones Industrial Average che ha guadagnato 263,28 punti, (1%) a 25,983,94.
La fiamma che ha acceso Wall Street, naturalmente, ha attizzato anche le piazze finanziarie europee che così hanno recuperato le perdite della giornata vissuta ieri sulla scorta delle dichiarazioni Bce. A Milano Piazza Affari che ha chiuso ha chiuso con un guadagno dello 0,91%.
Di qua dell’Atlantico a far tornare un po’ di movimento nelle contrattazioni è, dunque, la speranza, tra gli investitori, che non vengano applicati i dazi al Messico da parte degli Stati Uniti e l'incremento dei prezzi del petrolio in vista dell'atteso incontro, previsto per il 10 giugno, tra ministri dell'Energia di Arabia Saudita e Russia a San Pietroburgo.
Diverso, invece, il discorso sulle valute. Con il rapporto sui salari l'indice del dollaro (DXY00) è sceso a un minimo di 2 mesi e mezzo -0.456 (-0,47%). All’incontro, i futures di giugno euro-fx (E6M9) hanno chiuso +65 (+ 0,58%). Il rapporto EUR / USD è aumentato di +0,0052 a poco più di 1,13, aprendo di fatto ad una inversione del trend ribassista che si trascina dal febbraio 2018. Questo dal punto di vista dell’analisi grafica.
Sul fronte dei fondamentali, invece, gli scenari che si affacciano dovranno tenere conto di opposti elementi.
I fattori rialzisti per l'indice del dollaro includono infatti (1) il programma di riduzione del bilancio della Fed fino a settembre e la previsione del punto Fed per un ulteriore rialzo dei tassi nel 2020 rispetto ai tassi ufficiali quasi-zero da parte della BCE e della BOJ; (2) La forza relativa nell'economia degli Stati Uniti, e (3) il rimpatrio di denaro estero delle società statunitensi ai sensi della legge fiscale del 2018.
I fattori ribassisti, invece, includono (1) il calo del rendimento dei titoli a 10 anni a un minimo del 2,052%, che indebolisce i differenziali dei tassi di interesse del dollaro, (2) le aspettative di mercato di una probabilità dell'80% per un taglio dei tassi alla riunione del FOMC di luglio, (3) tensioni commerciali e incertezza politica a Washington, e (4) l'ampio budget USA e il deficit delle partite correnti.
Non solo. I fattori ribassisti per EUR/USD includono (1) la promessa della BCE di lasciare i tassi di interesse invariati almeno fino a metà 2020, (2) la debole crescita economica dell'Eurozona, (3) il crollo del rendimento dei bund decennali al minimo storico di -0,262%, che diminuisce i differenziali dei tassi d'interesse dell'euro e (4) i rischi di Brexit.
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