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Immagine del redattoreAntonio Arricale

Si fa presto a dire #iorestoacasa: in Italia più del 50% va al lavoro e la maggioranza è al Sud



Lockdown, confinamento, isolamento: al tempo del coronavirus il termine inglese è diventato sinonimo dell’altro e più gettonato slogan nostrano “io resto a casa” preceduto dall’hastag. Insomma, un altro modo per dire agli italiani: passate la quarantena o proteggetevi dal contagio rinchiusi in casa. Ma che, di contro, immediatamente rimanda alla cosiddetta fase 2, quella appunto della ricostruzione economica del Paese o, più semplicemente, del poter uscire finalmente dalla prigionia domestica e del ritorno al lavoro.

In proposito, tuttavia, a giudicare da una fotografia fatta dall’Istat, le cose starebbero diversamente da come i media e soprattutto la politica le raccontano. Sicché, probabilmente, i conti del danno economico causati dal Covid-19 andrebbero se non proprio rifatti, almeno aggiornati, comunque ponderati alla luce del rapporto statistico.

Insomma, a non menarla per le lunghe, si potrebbe dire: altro che lockdown, dal momento che oltre il 50% degli italiani continua ad andare al lavoro. E dunque a infischiarsene della pandemia. E dirò di più: la maggioranza di queste persone sono al Sud. Un’affermazione, quest’ultima, che rischia peraltro di alimentare altre polemiche scioviniste, oltre a quelle – spesso al calore bianco, ultimamente – tra maggioranza e opposizione.

E però i dati forniti dall’Istat sono questi. In tempi di distanziamento sociale e di isolamento causato da pandemia grave, nei settori dell’industria e dei servizi privati, ad esclusione delle banche, si continua a lavorare. E molto anche.

Nel dettaglio, a dispetto – sembrerebbe – dell’apparente fermata imposta dal coronavirus e dunque del notevole costo economico che ne sarebbe derivato, e nonostante lo smart working attivo per quanti possono, il 55,7% dei lavoratori italiani ogni giorno raggiunge la fabbrica e il proprio ufficio. Non solo. La maggioranza di questi lavoratori sono al Sud, ma – a scanso di equivoci – soltanto perché il Nord è stato interessato da maggiori contagi e restrizioni. Certo ora non mancheranno i solidi nordisti che scaveranno altre e più prosaiche motivazioni, ma non è il caso di buttare altra benzina sul fuoco della polemica.

Torniamo, invece, ai dati Istat. Per i settori lasciati aperti dal famoso Dpcm nelle regioni del Sud la quota di addetti è superiore al valore medio nazionale. E, guarda caso, sono tre le regioni solitamente considerate “cenerentola” – Basilicata, Calabria e Sicilia – che fanno registrare questo dato. E lo stesso primato possono vantare anche alcuni comuni sempre del sud. Infatti, su una lista di 100 municipi italiani dove si lavora di più durante il lockdown i primi tre sono: Priolo Gargallo (Siracusa) con l’82,3% dei lavoratori attivi nei settori aperti; Rutigliano (Bari) con il 79,2% di lavoratori attivi; Fiumicino con il 78,4%. Il primo comune del nord lo troviamo soltanto in quinta posizione, Somma Lombardo, in provincia di Varese con 77,2% di addetti al lavoro nei settori ancora aperti.

Non c’è invece grande differenza tra nord e sud, secondo i dati Istat, nella classifica tra le grandi città in cui si lavora di più durante il lockdown. In questo caso conta la vocazione economica dei territori, piuttosto che la posizione geografica. Sicché, nella classifica delle città al di sopra della media nazionale, troviamo nell’ordine: Genova (69,6%); Bari (68,7%); Roma (68,5%); Ancona (68,4%); Trento (68,3%); Bologna (67,7%); Milano (67,1%) e finanche Palermo (66,6%).

Infine, un dato che, questo sì, sicuramente butterà altra benzina sul fuoco della polemica: tra i territori dove più è alta la percentuale di quanti continuano a lavorare, ci sono i primi e più colpiti dai contagi di Covid-19: Lodi (73,1%) e Crema (69,2%).

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