Schiarita sui palazzi della politica. Il governo si farà e non sarà “neutro” – per dirla con la formula sterilizzata per indicare la solita soluzione “tecnica”, come è sempre accaduto nelle precedenti analoghe circostanze di stallo – messo su, cioè, all’unico scopo di portare nuovamente il Paese alle elezioni, bensì politico. E, dunque, di legislatura. Almeno così sembra. Matteo Salvini, leader della Lega, e Luigi Di Maio, numero uno dei Cinque stelle sono, infatti, finalmente al lavoro per definire la quadratura del cerchio: un programma di governo con il relativo contratto delle cose da fare, in modalità e tempi ben definiti.
La soluzione di un accordo Lega-M5S – volendola vedere per tempo – era nelle cose, oltre che ne numeri per comporre la maggioranza. La politica, però, ha bisogno di ritmi e riti da consumare che spesso confliggono con le emergenze imposte dal momento congiunturale e, nel caso dell’Italia, spesso anche strutturale. E sia. L’intesa – posto che tutto fili liscio – ha il merito, se non altro, al di là di molte altre possibili, oggettive e opposte argomentazioni, almeno di tenere in piedi l’unità nazionale, atteso che la Lega (un tempo secessionista) si è imposta col voto soprattutto al nord e il M5S al sud.
Ovviamente, c’è chi grida al populismo, ora, dopo avere declinato magari l’invito ad assumere un ruolo di responsabilità per garantire la governabilità al Paese. Ma anche questo fa parte del rito: transeat, avrebbero detto, un tempo, saggiamente i preti.
Stupisce, tuttavia, che le stesse parole d’ordine e, dunque, ad agitare lo spettro di un “governo di sobillatori popolari”, vengano utilizzate a Bruxelles. E, nella fattispecie, magari da chi finora ha tenuto il timone dell’Ue ed in qualche modo s’è reso responsabile, attraverso le discutibili politiche messe in campo, della crescente marea antieuropeista che è montata un po’ in tutto il Vecchio Continente e non soltanto in Italia, in quest’ultimo decennio.
Peraltro, mi limito ad osservare, una cosa è fare propaganda, altra è governare. Insomma, alla minaccia di dare fuoco al pagliaio, quando an cora non lo si possiede, non sempre corrisponde la possibilità e la voglia di farlo davvero una volta che ci si ritrova dentro con il cerino in mano. E questo lo sanno, per esempio, bene i mercati. Giovedì, infatti, alle prime voci della ripresa del dialogo tra Salvini e Di Maio – raccontano le cronache – a Piazza Affari la borsa ha reagito male (in ogni caso, meno dell’1%: ci sono stati momenti peggiori). Il giorno dopo, però, incurante delle cose che accadevano a Roma, è andata in altalena grazie ai bancari, che sull’onda degli ottimi risultati delle trimestrali dei principali istituti di credito, hanno registrato performance di tutto rispetto. Il titolo del convalescente Monte dei Paschi di Siena, per dire, è stato addirittura sospeso per eccesso di rialzo (+13,6%). Insomma, “business is business”: la finanza metabolizza velocemente tutto.
E poi – diciamocela tutta – nel caso dell’Italia si tratta davvero di bere o affogare. Basta ascoltare il grido di dolore che si è levato da Rete Imprese Italia con riferimento al rischio di un aumento dell’Iva posto a salvaguardia degli equilibri economici imposti, appunto, da Bruxelles. “Se non fermate l’Iva, l’Italia perderà 11,5 miliardi”, ha ammonito l’organizzazione che rappresenta Casartigiani, Cna, Confartigianato, Confcommercio e Confesercenti. Un lusso che non possiamo assolutamente permetterci, tanto più che nella nota mensile sull’andamento dell’economia l’Istat scrive: “si rafforzano i segnali di rallentamento delineando uno scenario di minore intensità della crescita”. Non solo. Intanto, anche la stima sui consumi (il mese di riferimento è marzo scorso) è data in calo dello 0,2% in valore e dello 0,6% in volume rispetto al mese precedente e dello 0,3% rispetto al trimestre. Inoltre, ricorda sempre l’Istat, ci sono 5 milioni di persone in povertà assoluta con cui il Paese deve fare i conti, per più di una ragione. E ci sono oltre un milione di famiglia senza lavoro, un numero che è praticamente raddoppiato negli ultimi dieci anni, ha riferito il presidente dell’Istituto di statistica, Giorgio Alleva, nell’audizione sul Def. Per concludere, nel Paese permane un clima di generale fiducia da parte delle famiglie e delle imprese che mostra una “tendenza al peggioramento”, scrive sempre l’Istat.
Fortunatamente, però, c’è anche una realtà che va meglio delle sensazioni: a marzo la produzione industriale è tornata a crescere “con un aumento dell'1,2% rispetto a febbraio, che segue due cali consecutivi”. Insomma, mai dire mai.
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