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Immagine del redattoreAntonio Arricale

RIDUZIONE DEI PARLAMENTARI, IL VOTO REFERENDARIO TRA DEMAGOGIA E PARADOSSO

NON E' LA PRIMA VOLTA, NON SARA' L'ULTIMA: I RIFORMISTI VESTONO I PANNI DEI CONSERVATORI E VICEVERSA.

NELLA CARTA DEL 1948 - LA COSTITUZIONE PIU' BELLA DEL MONDO - IL NUMERO DEI SENATORI NON ARRIVAVA A 250, E FU COSI' PER ALMENO 15 ANNI


L'aula del Senato a Palazzo Madama


Il referendum per la riduzione dei parlamentari contrappone, infine – e c’era da aspettarselo – sostanzialmente soltanto due schieramenti politici, paradossalmente entrambi della maggioranza di governo, entrambi alle prese con seri problemi interni, e che pertanto affidano al risultato elettorale il momento del “redde rationem”.

Insomma, da una parte ci sono i 5Stelle, che della legge di riforma costituzionale hanno fatto il punto più importante del contratto di governo, prima con la Lega di Salvini e poi con il Pd di Zingaretti e, dunque, nella vittoria del SI colgono un motivo per rivitalizzare l’azione di governo, non tanto dopo la pessima gestione del confinamento imposto dall’emergenza Covid, quanto per i ritardi dei pagamenti della Cassa integrazione da parte dell’Inps, gli scivoloni del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e, infine, la maldestra gestione della riapertura delle scuole della ministra Lucia Azzolina. E, in un’ultima analisi, anche di confermare la leadership del movimento del ministro degli Esteri Luigi di Maio, attualmente sotterraneamente insidiata dal presidente del Senato Roberto Fico oltre che infastidito dal giramondo Alessandro Di Battista che scalpita per tornare in campo.

Dall’altra, invece, ci sono appunto gli oppositori interni del Pd, vale a dire la minoranza rappresentata dai tardi epigoni del partito comunista, la quale, con il contorno non del tutto disinteressato dei partiti minuscoli che ruotano intorno alla galassia del centrosinistra, con la riduzione drastica dei seggi teme appunto di rimetterci la “rappresentanza parlamentare”. Così almeno dicono, per ingentilire lo scopo, ma in fondo si tratta soltanto di conservare la propria poltrona.

Del resto, al referendum consultivo si è arrivato soltanto perché dopo il voto plebiscitario espresso in seconda lettura dalla Camera dei deputati (su 567 votanti i favorevoli sono stati 553, i contrari appena 14, 2 astenuti) la legge di riforma degli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione al Senato è passata a maggioranza semplice. E cioè con il voto contrario e determinante, appunto, di 71 senatori del Pd (e l’astensione di FI) i quali, poi, come si sa, si sono anche fatti promotori, in ultima istanza, della richiesta del Referendum confermativo.

Questo lo scenario di fondo. E questi i fatti.

Certo, lasciano perplessi, e non poco, il coro e gli argomenti di volta in volta addotti, che intanto, in questi giorni, abbiamo letto e ascoltato, di schiere di accese tifoserie dell’una e dell’altra parte. Alcuni nel ruolo di mosche cocchiere (e nella categoria devo purtroppo annoverare anche fior di costituzionalisti che, con sommo fastidio, ho riscoperto, per dirla con Umberto Eco, “apocalittici e/o integrati”); altri nei panni degli utili idioti, spesso accesi da un furore ingiustificato, com’è nella peggiore tradizione nella patria di guelfi e ghibellini.

E’ capitato anche questo: che i cosiddetti progressisti e riformisti si siano schierati, paradossalmente e acriticamente sul fronte della conservazione, e viceversa.

Eppure, ad una analisi pacata dei fatti e della storia, l’argomento di ridurre il numero dei parlamentari italiani non è di oggi. Viene da molto lontano e se lo sono posti, negli anni, sia da destra che da sinistra.

Intanto, una cosa va subito chiarita, inequivocabilmente: nella Costituzione del 1948 – “la Costituzione più bella del mondo” – il riferimento al numero precostituito dei deputati e dei senatori non c’era. Era semplicemente prevista l’elezione di un deputato ogni 80 mila abitanti o per frazione superiore a 40 mila, mentre a ciascuna Regione era assegnato un senatore ogni 200 mila abitanti, o per frazione superiore a 100 mila, con un minimo di 6 senatori per ogni Regione e massimo uno per la Valle d’Aosta.

Di più: nella prima elezione a suffragio universale furono eletti soltanto 572 deputati e 237 senatori.

E i numeri, non distanti da quelli contemplati dalla legge di riforma costituzionale approvata nell’ottobre scorso, furono più o meno gli stessi anche nella seconda (1953-1958) e nella terza (1958-1963) legislatura: 590 deputati e 237 senatori; 596 deputati e 246 senatori. E già questo non dovrebbe far gridare allo scandalo della perdita di rappresentatività che molti adducono.

L’attuale numero di parlamentari (630 deputati e 315 senatori) venne fissato in Costituzione soltanto nel 1963, dopo quindici anni, con il governo Fanfani IV, e si trattò di una manovra sostanzialmente democristiana, cattolica, nel senso di universale, e di fatti trovò il favore di tutti i partiti.

Già nel 1970, però, con l’istituzione delle Regioni e, ancor più, nel 1979 con le elezioni del Parlamento europeo, ci si cominciò a chiedere se il numero dei parlamentari non fosse eccessivamente esorbitante per un Paese tutto sommato come l’Italia, grande in Europa e nel mondo di iniziativa, creatività, storia, ma non per numero di abitanti e ancor meno per estensione territoriale.

La pietra nello stagno fu lanciata per primo dal Psi di Bettino Craxi sulla cui ipotesi di Grande Riforma scaturì la prima Commissione Bicamerale, presieduta dal liberale Aldo Bozzi, che ipotizzò – rispetto al numero dei rappresentanti parlamentari – un ritorno alle origini: vale a dire, un deputato ogni 110 mila abitanti ed un senatore ogni 200 mila abitanti. Ovviamente, la proposta abortì. Il grande Indro Montanelli scrisse: ma come potete pensare che un deputato o un senatore possa votare per abolire lo scranno su cui comodamente siede? E arrivò a proporre per gli eventuali “trombati” la garanzia dello stipendio parlamentare per almeno un’altra legislatura.

L’argomento tornò di attualità nella XIII legislatura, con la Bicamerale presieduta dal comunista Massimo D’Alema, che, a sua volta, presentò un progetto che fissava in 400 e 500 il numero dei deputati ed in 200 quello dei senatori. Appunto, come oggi. Le ragioni, però, per cui anche questo progetto abortì sono sempre le stesse. E non sono politiche.

Né andò meglio – si ricorderà – il tentativo di revisione costituzionale avviato nella XIV legislatura (governo Berlusconi III) con cui i senatori diventavano 252 ed eletti, peraltro, non a suffragio universale, ma dai consiglieri regionali.

Della necessità di modifica se ne riparlò ancora nella XV legislatura (commissione presieduta da Luciano Violante) in cui il numero dei senatori veniva anche ridotto di più (186), mentre l’ipotesi di riforma del governo Letta propendeva per 450 deputati e 200 senatori.

Infine, tutti ricordano ancora anche la riforma costituzionale proposta da Renzi-Boschi che, con una ridefinizione del ruolo del Senato in chiave di rappresentanza delle Regioni, riduceva a meno di 100, per l’esattezza a 95, il numero dei senatori.

Tentativi naufragati tutti per gli stessi motivi: prosaici, terra terra, giammai per attentato alla rappresentanza della sovranità popolare. E se pure fosse, non per questa ragione può dirsi che il problema dello snellimento e migliore funzionamento del Parlamento non esiste. Aggiungo e concludo: l’Italia conta 945 parlamentari, la Germania 700, la Gran Bretagna 650 e la Francia 600, pure avendo un numero di abitanti rispettivamente inferiore.

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