Debito pubblico: indietro tutta, o quasi. A fare retromarcia per primo è Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea: "Non siamo stati sufficientemente solidali con la Grecia e con i greci" durante la crisi del debito. “Mi rallegro di constatare che la Grecia, il Portogallo ed altri Paesi – aggiunge – hanno ritrovato se non un posto al sole", almeno "un posto tra le antiche democrazie europee". E ammette: nel corso della gestione della crisi ellenica “abbiamo insultato i greci”, riferendosi alle accuse mosse da diversi Stati alle scelte fiscali di Atene che hanno finito per aggravare la crisi del debito sovrano in tutta la zona euro.
Resipiscenza che arriva tardi, ma è meglio di mai. Però non è questo il punto.
Durante la crisi “c'è stata dell'austerità avventata. Mi rammarico di aver dato troppa importanza all'influenza del Fondo monetario internazionale. Al momento dell'inizio della crisi – ricorda il numero uno della Commissione europea – molti di noi pensavano che l'Europa avrebbe potuto resistere all'influenza del Fmi. Se la California è in difficoltà, gli Stati Uniti non si rivolgono” al Fondo monetario internazionale e “noi avremmo dovuto fare altrettanto”.
Appunto, l’Unione Europea non lo ha fatto. E qui ci sarebbe da spendere fiumi di inchiostro sulla necessità di rivedere spirito e architettura istituzionale dell’Unione Europea. E magari i partiti lo faranno, questa volta, in vista delle prossime elezioni per il rinnovo del parlamento comunitario. E magari finalmente ci diranno, sovranisti da una parte ed europeisti ortodossi dall’altra, che idea di Unione hanno in testa, per fare quale Europa ci chiederanno il voto.
Ma qui – si diceva – si parla di debito pubblico. E a lanciare, in proposito, la pietra nello stagno è niente po’ po’ di meno che l’Economist, una delle bibbie del mainstream finanziario internazionale con il Financial Time ed il Wall Street Journal. Posto, insomma, che non pochi economisti sulla spesa pubblica hanno intanto assunto via via una posizione assai critica, resta in ogni caso l’invito alla moderazione del deficit. Qualcosa, però, sta cambiando. In particolare se si guarda ad altre esperienze, a cominciare dal Giappone ma, più ancora, degli Usa dell’odiato Trump.
Esperienze, scrive il giornale inglese, che stanno offrendo nuovi spunti di riflessione. Certo, “i governi non possono indebitarsi senza limiti”, sottolinea la rivista britannica, “eppure per gran parte dell’ultimo decennio i politici hanno stimolato le economie troppo poco”. Ma ecco l’affondo: “I paesi ricchi hanno passato molto più tempo al di sotto della loro capacità produttiva che al di sopra di essa, con gravi costi economici”, scrive l’Economist. Per dirla, infine, in maniera diretta: “una paura eccessivamente pronunciata del debito pubblico, accresciuta dagli economisti, è in parte da biasimare”.
Il giornale inglese sottolinea, inoltre, che ad essere messo in dubbio è anche il principio secondo cui le nuove spese del governo debbano essere compensate sempre da maggiori entrate fiscali. E però con l’avvento dell’era Trump, con un rapporto deficit-Pil arrivato al 6%, questo non è avvenuto. Né sono molti gli economisti che se ne lamentano.
Si faceva, dunque, anche l’esempio del Giappone per sostenere la necessità di un parziale ridimensionamento dei rischi del deficit. “L’esperienza del Giappone, in cui il debito pubblico in percentuale del Pil supera il 230%, suggerisce che anche livelli molto alti di debito potrebbero non spaventare i creditori, almeno nelle economie avanzate che si indebitano nelle proprie valute”, afferma l’Economist, sottolineando peraltro che in Giappone la banca centrale nazionale può, se necessario, acquistare direttamente titoli di Stato, controllandone così il tasso d’interesse.
Mutatis mutandis, era stato invero già Olivier Blanchard, ex economista a capo del Fmi a dare il la alla discussione nel corso di una recente conferenza: “Quando il ritmo della crescita economica supera il tasso di interesse sul debito di un paese, la gestione dell’indebitamento diventa sostanzialmente più facile”, aveva detto. In altre parole: maggiore è il reddito nazionale, maggiore è il livello di disavanzo che può essere tollerato senza che questo si traduca in un maggior “bagaglio” di debito. Storicamente, annotava Blanchard, il tasso di crescita nominale negli Stati Uniti è stato superiore all’interesse dei titoli di stato Usa a un anno (5,3% contro 4,6%). Sicché, a tenere sotto controllo la crescita del debito, aggiunge l’Economist, è più questo equilibrio fra crescita e tassi d’interesse che non “la deflazione indotta dall’austerity”, come quella sperimentata negli anni Venti, che puntava appunto a far riscuotere allo Stato più di quanto spendeva (cioè a realizzare avanzi di bilancio).
Pensando ai panni sporchi di casa nostra, la colonna di testo dell’Economist vale, evidentemente, oro colato per il governo-gialloverde, che è appunto sovranista ed anti-rigorista. Ma guai ad abbandonarsi al facile entusiasmo. Uno, perché l’appartenenza dell’Italia alla moneta unica ne impedisce il confronto con il Giappone non fosse altro perché i poteri della Bce non sono assolutamente equiparabili a quelli della Bank of Japan. Come è noto, infatti, Francoforte non può acquistare “direttamente” i titoli di Stato. C’è poi che, a differenza dei Paesi citati, l’Italia è vincolata da trattati che non solo regolano le politiche di bilancio, ma la cui violazione comporta sanzioni non poco onerose. Infine, c’è la questione dello spread che finisce, volenti o nolenti, per incidere direttamente sul costo dei futuri indebitamenti dello Stato, minandone appunto la sostenibilità.
E, però, un fatto è certo: la “questione” è finalmente posta non dai soliti governanti italiani, ma scritto con inchiostro autorevole. Così come certo è il fatto che l’austerità imposta ai Paesi indebitati non ha fatto fare grandi passi in termini di crescita, né è servita appunto per favorirne la sostenibilità del deficit.
Occorrono, insomma, soluzioni nuove e, soprattutto, una nuova visione e condivisa dell’Europa. Avanti con le idee.
#borse #piazzaffari #euro #dollaro #forex #petrolio #oro #criptovalute #bitcoin #wallstreet #nyse #fed #trump #politica #governo #brexit #ue #economist #trump #debitopubblico
Comments