Il ciclone Trump affossa le borse mondiali. La guerra commerciale, per ora dichiarata soltanto contro la Cina, ha avuto un riverbero negativo immediato sulle piazze finanziarie di tutto il mondo. A partire proprio da Wall Street che nel giorno dell’annuncio dell’inasprimento doganale ai prodotti metalliferi cinesi per un valore annuo di oltre 60 miliardi di dollari, ha perso circa il 3% del suo valore. Ma questo – paradossalmente – è soltanto l’apparenza. La sostanza del messaggio, infatti, è tutta politica. L’America di Donald non intende rinunciare alla leadership mondiale e, dunque, a dettare le regole del gioco. Agli analisti il compito di spiegarci che cosa ci riserverà, di questo passo, il futuro. A noi conforta il fatto che per ora – e soltanto per ora, come direbbero a Striscia la notizia – l’Europa è posta al riparo dai provvedimenti di inasprimento doganale. E’ fin tropo chiaro, però, che la mannaia è sempre lì, sospesa, ma pronta a calare.
“Abbiamo lavorato duro per un'esenzione temporanea dell'Ue dai dazi Usa che abbiamo ottenuto, stamattina discuteremo di come poter assicurare un'esenzione permanente e quindi di quali saranno i prossimi passi da fare”, ha detto la premier britannica Theresa May al suo arrivo alla sessione di lavoro sui dazi del vertice Ue a 28. Più franco e realistico il commento del premier belga Charles Michel: dagli ultimi sviluppi emerge sempre più “la volontà del presidente degli Stati Uniti di negoziare con l'Ue mettendole una pistola alla tempia”.
Giusto per ricordare: la produzione europea di acciaio e alluminio (le materie più colpite dai dazi) è di 162 milioni di tonnellate. L’Italia è il secondo produttore in Europa, dopo la Germania. Il nostro Paese produce 23,400 milioni di tonnellate (dati 2016), con un fatturato attorno ai 30 miliardi di euro, di cui 11 miliardi di esportazione. Il settore occupa in Italia circa 75 mila addetti, di cui 35 mila diretti; ci sono 133 aziende associate a Federacciai, che detiene circa il 95% della produzione.
Ovviamente, la risposta della Cina non si è fatta attendere: nel mirino sono finiti 128 prodotti americani per un totale di 3 miliardi di dollari nel caso non maturi un accordo con Washington. Chen Fuli, vice capo del dipartimento Trattati e Norme del ministero del Commercio, ha detto che Pechino si oppone a una guerra commerciale, ma non ne ha paura. “Seguiremo da vicino gli sviluppi. Non appena gli Usa prenderanno le misure, la Cina replicherà senza esitazione”, ha aggiunto.
Ma la guerra commerciale Usa-Cina è soltanto una delle notizie politico-economiche-internazionali per cui ricorderemo questa settimana. Sì, d’accordo, c’è stato l’aumento (ampiamente previsto) di un quarto di punto dei tassi di interesse da parte della Fed e la quasi parallela decisione di lasciarli, invece, per suo conto invariati della Banca d’Inghilterra. Ma c’è stato, in borsa, soprattutto il crollo di Facebook a causa dell’”affaire” Cambridge Analytica, la quale avrebbe sottratto al social i dati di 50 milioni di utenti e li avrebbe utilizzati in modo improprio nel corso della campagna elettorale di Donald Trump per elezioni presidenziali negli Stati Uniti.
Facebook ha perso circa 9 miliardi di dollari in 48 ore. Va detto però che per Mark Zuckerberg la perdita non è stata così dolorosa considerato che per il fondatore del social era riuscito a vedere circa 5 milioni di titoli nelle fasi antecedenti il crollo.
E c’è stata, poi, la notizia dell’arresto dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy accusato di aver incassato un finanziamento illecito da Gheddafi, contro cui poi mosse guerra.
E ancora la decisione di Trump di proibire “qualsiasi valuta digitale emessa da o per conto del governo venezuelano". Nel caso specifico, della criptovaluta Petro, considerata invece dal leader sudamericano Nicolas Maduro “un meccanismo economico rivoluzionario che permetterà al paese di rompere i legami con il dollaro”.
Altro fronte, altra guerra.
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