Il ponte di ferragosto, si sarebbe detto – in un clima di diffusa felicità e benessere – negli anni del cosiddetto boom economico, in un’Italia caparbiamente determinata a lasciarsi alle spalle i ricordi e le macerie di una guerra oltremodo disastrosa.
A distanza di oltre mezzo secolo, invece, sempre ad agosto, il termine ponte si impone drammaticamente con un altro nome: si dice ponte Morandi, ora, dall’ingegnere che lo progettò, in quegli anni di crescente benessere economico, appunto. E diventa, il ponte, suo malgrado, simbolo non più di sviluppo, ma di una immane tragedia umana (43 vittime e centinaia di sfollati) ed economica. Con il crollo del viadotto autostradale e Genova spezzata in due, e con il maggiore porto italiano costretto giocoforza a movimentare a scartamento ridotto merci e capitali, presto gli effetti negativi – c’è da scommettere – si faranno seriamente sentire anche sul resto del sistema paese.
Con il crollo di un ponte (un altro) di cemento armato gli italiani, dunque, in questi giorni hanno recuperato alla memoria anche altri ricordi. Si sono elencati così i numerosi viadotti di cemento precompresso che troppo facilmente si sgretola, mentre resistono all’usura, non di pochi decenni, ma di millenni, i ponti di pietra e malta costruiti dai romani. Il paragone, ovviamente, non regge, per una serie di ragioni che è inutile ricordare, ma dà comunque il senso dello sconforto che serpeggia nella società, a tutti i livelli, in luogo della fiducia di cui tutti avremmo invece bisogno.
E soprattutto si sono evocati – ed è la prima volta, forse, che è successo in maniera così sfacciata – i ponti figurati del capitalismo relazionale italiano. Insomma, con la famiglia Benetton accusata di aver fatto moltissimi utili (9,5 miliardi di euro) e pochi investimenti (qualche centinaia di milioni), con la carissima, per gli utenti, gestione delle autostrade (solo fra il 2008 e il 2016 le tariffe sono aumentate del 25%) è emerso anche un intreccio politico-affaristico-imprenditoriale da far rabbrividire.
Nella catena di intrecci, interessi e relazioni sono emersi tutti i nomi del gotha finanziario nazionale, europeo e internazionale e della politica nostrana (da Mario Draghi a Romano Prodi, da Beniamino Andreatta ad Azelio Ciampi, Mario Monti, Giuliano Amato, Massimo D’Alema, Enrico Letta, Gian Maria Gros-Pietro, George Soros e altri ancora) che il governo non a caso intende spezzare. Anche perché dietro questa catena più un osservatore vi ha intuito la regia di un cartello finanziario internazionale costituito dai mitici ed opachi Club Bilderberg, Commissione Trilaterale o altre organizzazioni del capitalismo speculativo anglo/americano. Ma si tratta di Illazioni, ovviamente, o più semplicemente di ragionamenti politici.
Argomentazioni che, però, rilanciano in maniera assai critica il tema delle privatizzazioni e dell’austerity predicata ed applicata dall’Europa. E dunque del mancato potenziamento e ammodernamento della rete infrastrutturale. “La tragedia del crollo del ponte autostradale di Genova è la dimostrazione del fallimento dei due assi prevalenti sui quali si sono articolate le scelte politiche italiane degli ultimi 20-30 anni: le privatizzazioni e l’Europa”, ha scritto Domenico Moro, ricercatore Istat. “Integrazione europea e privatizzazioni sono due fattori strettamente legati tra di loro dalla concezione indiscutibile della superiorità del mercato autoregolato e del privato (in altre parole del capitalismo). Inoltre, le massicce privatizzazioni degli Anni 90 erano motivate dalla necessità di fare cassa per ridurre il debito pubblico e così poter entrare in una Europa, che vedeva e vede l’intervento statale come un aspetto negativo da ridurre il più possibile. Non si capisce, quindi”, prosegue Moro, “come si possano assolvere vent’anni di austerity e di neoliberismo europei ed esaltare una specie di placebo come il piano di investimenti Juncker. È molto tempo, dagli Anni 90, che in Italia è prioritario perseguire la disciplina di bilancio e privatizzare. Ciò ha provocato prima il blocco e poi la drastica riduzione degli investimenti fissi, che non può che condurre a un deterioramento delle infrastrutture. Solo per fare un esempio percepibile da tutti, lo stato delle strade in molte regioni e città, a partire da Roma, è giunto a condizioni di degrado insostenibile”. Apriti cielo.
Sta di fatto che gli investimenti italiani nelle infrastrutture sono diminuiti ad un tasso allarmante. Lo dice l’Ocse: dai 13,66 miliardi di euro nel 2007 si è passati ai 3,39 miliardi nel 2010 per poi risalire ai 5,15 miliardi del 2015, molto indietro rispetto alla Germania (€ 11,69 miliardi), Francia (€ 10,01 miliardi) e Regno Unito (€ 9,07 miliardi).
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