La morte di Piero Ostellino, maestro di giornalismo, corrispondente da Mosca e da Pechino e rigoroso direttore del Corriere della Sera dal 1984 al 1987, non ha trovato grande eco sui social, adusi ad accendere i fari su ben altri personaggi, evidentemente. Ma non ha trovato grandi riflessioni nemmeno sui giornali, a dire la verità. Non, almeno, lo spazio che avrebbe meritato.
Lo faceva notare, con puntuale attenzione e sensibilità, già Luigi Iannone.
Sarà che Piero Ostellino era un giornalista di formazione liberale. Anzi, un liberale tout court. Insomma, non marxista o, meglio, non comunista, e nemmeno banalmente cattolico, aggiungerei. Insomma, era uno fuori dal coro, non riconducibile alla cultura dominante negli ultimi tre quarti di secolo in Italia. In altri termini, a quella cultura cosiddetta di sinistra, che si è finora accreditata come unica e superiore “intelligencija” e che in ragione di questa supposta superiorità ha praticamente occupato e monopolizzato tutti i posti dell’industria culturale e del consenso nel nostro Paese. A cominciare dalla Rai.
Ma tant’è.
Il fatto è che anche i sedicenti liberali hanno colpa di tutto questo (non Ostellino, evidentemente, che fu sempre dalla parte del cittadino e contro lo Stato canaglia). Nel senso, che spesso i liberali si riscoprono tali unicamente per sostenere sé stessi, il proprio ego, il proprio status, le proprie convinzioni, finendo poi per abdicare al primo e principio cardine del liberalismo: la tolleranza.
Insomma, tutto questo sproloquio per dire che, forse, i cittadini che hanno votato i 5 Stelle non sono proprio sprovveduti e il reddito di cittadinanza non è una bestemmia illiberale.
(A scanso di equivoci, preciso che non voglio qui discutere della “fattibilità” della misura. Nel merito, la vicenda non mi appassiona. E’ un problema di chi ha proposto questo punto programmatico e, dunque, di trovare la soluzione e, soprattutto, le coperture finanziarie per poterlo applicare, semmai riuscirà a fare un governo. Nel caso, mi limiterò semplicemente a prenderne atto e trarre le conseguenze).
Dunque, sulla “illiberalità” della proposta grillina in questo stesso spazio l’ex senatore D’Anna ha evocato il pensiero economico dei sacerdoti liberali del nostro tempo. Uno su tutti: Friedrich A. von Hayek, premio Nobel per l’economia nel 1974. Tralascio il monetarista Milton Friedman, capostipite della scuola di Chicago, che comunque al primo in qualche modo si riconduce. Von Hayek non è tra gli economisti che amo, ma indicatomi come modello non ho potuto fare a meno di saperne di più. Ed ecco che cosa ho scoperto.
Per quanti si sono persi le coordinate della polemica e hanno avuto la bontà di leggere fino a questo punto riassumiamo i termini della questione, che in due parole è la seguente: la tradizione liberale prevede, nell’ambito della supremazia del mercato, la difesa dei più deboli? Dunque: il reddito di cittadinanza è compatibile con la teoria economica liberale?
Secondo l’ex senatore D’Anna, no. E mi invitava, appunto, a leggere von Hayek. Cosa che ho fatto, evidentemente, sicché riporto di seguito, testualmente, un passo del premio Nobel estrapolato da “Legge, legislazione e libertà” che mi sembra particolarmente illuminante: “(…) vi è ancora – scrive Hayek – tutta un’altra classe di rischi rispetto ai quali è stata riconosciuta solo recentemente la necessità di azioni governative, dovuta al fatto che come risultato della dissoluzione dei legami della comunità locale e degli sviluppi di una società aperta e mobile, un numero crescente di persone non è più strettamente legato a gruppi particolari su cui contare in caso di disgrazia. Si tratta del problema di chi, per varie ragioni, non può guadagnarsi da vivere in un’economia di mercato, quali malati, vecchi, handicappati fisici e mentali, vedove e orfani (e aggiungo io: disoccupati, esodati etc., nda) – cioè coloro che soffrono condizioni avverse, le quali possono colpire chiunque e contro cui molti non sono in grado di premunirsi da soli, ma che una società la quale abbia raggiunto un certo livello di benessere può permettersi di aiutare”.
E c’è di più. In maniera anche più esplicita Hayek aggiunge: “Assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello sotto cui nessuno scenda quando non può più provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società in cui l’individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato”.
Ovviamente, Hayek non è l’unico liberale a pensarla così. Dello stesso avviso erano almeno altri due autorevoli liberali a noi più prossimi: Luigi Einaudi e Luigi Sturzo, per citare la dottrina cattolica della sussidiarietà che peraltro all’ex democristiano D’Anna pure è nota.
Ebbene, scrive Luigi Einaudi nelle sue “Lezioni di politica sociale”: la “legislazione sociale” di uno Stato liberale deve avere come obiettivo strategico quello di “avvicinare, entro i limiti del possibile i punti di partenza” degli individui, affermando “il principio generale che in una società sana l’uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario per la vita”.
Ovvero, sono tre i compiti fondamentali a cui deve assolvere uno Stato liberale: a) fissare le regole che, da un lato, impediscano all’economia di mercato di degenerare e, dall’altro, le consentano di produrre efficienza economica e solidarietà sociale, nonché di essere un baluardo per la democrazia politica; b) garantire un livello minimo di vita a tutti i cittadini; c) assicurare il rispetto della legge, al fine di proteggere e promuovere le libertà individuali e di garantire un idoneo habitat giuridico-istituzionale per l’economia di mercato.
Ecco, credo che Piero Ostellino la querelle l’avrebbe, forse, risolta così, citando le fonti e separando i fatti dalle proprie opinioni personali.
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